INTERVENTO “AMICI CURIAE” PRESSO CORTE COSTITUZIONALE

Filigrana

 INTERVENTO “AMICI CURIAE”

a favore della funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica

nel giudizio di costituzionalità dell’art. 25 undecies della Legge 136/2018

Atto di promovimento n.196 del 11.9.2020

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 La ns. associazione si propone la tutela, a livello nazionale, degli inquilini e degli assegnatari di alloggi di edilizia residenziale pubblica, nonché dei cittadini che, in generale, versano in condizioni di bisogno alloggiativo e comunque dei diritti degli utenti del bene casa e degli aspiranti ad esso (v. Doc. n. 1 – Statuto).

Nel caso di specie, sentiamo il dovere di intervenire a difesa della funzione sociale degli alloggi edificati in regime di edilizia convenzionata di cui all’art. 35 della L. 865.

Posto che la convenzione disciplinata dall’art. 35 della legge 865 del 1971 è lo strumento col quale il Comune (o il Consorzio dei Comuni) concede il diritto di superficie o cede la proprietà di terreni (precedentemente espropriati) a cooperative edilizie, imprese di costruzioni, enti pubblici e privati affinché si realizzi il piano edilizio previsto per un determinato piano di zona, occorre dire che la detta convenzione presenta prevalenti caratteri pubblicistici, in quanto la volontà delle parti si pone in uno schema, più che contrattuale, procedurale, finalizzato all’emanazione di un provvedimento.

Tale schema è quello dei cosiddetti contratti della pubblica amministrazione, relativi a rapporti aventi oggetto di diritto pubblico e caratterizzati dalla possibilità per l’Amministrazione di intervenire “ab extra” sul rapporto con atti autoritativi, in conformità alla disciplina legislativa del settore, che risulta in buona parte sottratto all’autonomia privata (ex multis, T.A.R Lazio n. 2963/2003). In altre parole, come si ricava dallo Studio 521-2011/C (v. Allegato n. 2) del Consiglio Nazionale del Notariato le convenzioni disciplinate dall’art. 35 della legge 865 del 1971:

a)   si posizionano in un assetto prettamente urbanistico (tanto è vero che esse servono a dismettere, da parte del Comune, aree che hanno come programma costruttivo un piano prestabilito dal Comune stesso, aree che vengono dal Comune espropriate, aree quindi che servono a destinare, a soggetti utilizzatori particolarmente bisognosi, abitazioni rivestenti natura di patrimonio indisponibile, la cui caratteristica è quella di non poter essere negoziati se non rispettando le norme per essi espressamente previste, come dispone l’art. 828, secondo comma c.c.);

b)   si inseriscono nel più ampio procedimento di edilizia residenziale pubblica disciplinato dalla legge 865/1971, che parte dall’esproprio dell’area per giungere sino alla successiva alienazione e/o locazione dell’alloggio realizzato; in particolare detto procedimento si articola in tre fasi: in primo luogoviene disciplinata la fase di acquisizione dell’area al patrimonio indisponibile del Comune, fase caratterizzata da procedure di carattere pubblicistico attinenti al procedimento espropriativo; in secondo luogoviene disciplinata la fase di disposizione dell’area (in proprietà o in diritto di superficie) a favore del soggetto attuatore dell’intervento edilizio; in terzo luogoviene disciplinata la fase della “gestione” dell’alloggio da parte dell’assegnatario/acquirente con i vincoli e le limitazioni alla libera disponibilità che discendono dalla peculiare natura dei beni (pur sempre ottenuti a condizioni di favore quanto meno inerenti la fase di acquisizione dell’area).

L’art. 35 della L 865/1971 stabilisce in maniera inequivocabile il contenuto minimo o “necessario” delle Convenzioni. Riprendendo le tesi esposte nello Studio n. 521-2011/C del Coniglio Nazionale del Notariato: «Si può pertanto distinguere tra un contenuto “necessario”, in quanto imposto dall’art. 35 L. 865/1971, ai fini della validità stessa della convenzione ed un contenuto “pattizio”, rimesso all’autonomia delle parti». Non v’è dubbio che ai fini della validità delle convenzioni, i commi 8° e 13° dell’art. 35 della L 865/1971 impongono esplicitamente l’inserimento di clausole volte a determinare il prezzo massimo di cessione e di locazione di tale tipologia di alloggio.

Con una certa frequenza si è sentito dire che il Legislatore, con le abrogazioni effettuate dall’art. 23 della Legge 179/92, avrebbe voluto liberalizzare il mercato dell’edilizia residenziale pubblica. Ciò è assolutamente falso perché la modifica in parola, non ha minimamente inciso sulla normativa per la concessione del diritto di superficie. Tanto è vero che il comma ottavo dell’art. 35 della L. 865/1971 non è stato mai né abrogato né modificato. Inoltre, anche per quanto attiene i suoli ceduti in proprietà, non si può prescindere dalla ulteriore modifica effettuata dal comma 63 dell’art. 3 della Legge 662 del 1996 che, richiamando l’art. 8 della L. 10/1977, ha sostanzialmente ripristinato i vincoli (sul prezzo massimo di cessione) precedentemente abrogati .

In realtà, dalla data di entrata in vigore di questa legge, per gli immobili edificati in regime di edilizia agevolata, è stata data la possibilità di essere alienati trascorsi almeno 5 anni dalla data di prima cessione/assegnazione. Però, ciò non significa che la cessione poteva avvenire senza fare riferimento al prezzo massimo di cessione degli alloggi. In diversa ipotesi, sarebbe stato abrogato anche l’art. 45 della L. 457/1978 il quale prevede che: “Gli immobili realizzati, senza il contributo dello Stato, nell’ambito dei piani di zona di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni e integrazioni possono essere ceduti ad enti pubblici e a società di assicurazione, anche in deroga a disposizioni legislative e statutarie, trasferendosi all’acquirente tutti gli oneri stabiliti nella convenzione stipulata tra il costruttore ed il comune. In tal caso, è fatto obbligo agli acquirenti di locare le abitazioni esclusivamente a soggetti aventi i requisiti prescritti dalla presente legge ed ai canoni previsti nelle convenzioni”.

L’argomento è stato affrontato anche dal Comitato per l’Edilizia Residenziale (istituito dalla medesima L. 865/1971) che nella Delibera del 04.11.1993, ha statuito che: «Il prezzo definito nella convenzione comunale rappresenterà, naturalmente, il prezzo massimo che l’operatore potrà praticare nel trasferimento della proprietà dell’abitazione al primo destinatario e, successivamente e per la durata della convenzione, quello che tale destinatario potrà applicare ad un successivo acquirente, fermo restando che i prezzi effettivi, nel rispetto di tale massimale, saranno direttamente concordati fra le parti».

Comunque sia, ogni possibile dubbio è stato dissolto dal comma 49-bis dell’art. 31 della Legge 448/’98 (come introdotto dalla L. 106/2012) che stabilisce: “I vincoli relativi alla determinazione del prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative e loro pertinenze nonché del canone massimo di locazione delle stesse, contenuti nelle convenzioni di cui all’articolo 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, e successive modificazioni, per la cessione del diritto di proprietà, stipulate precedentemente alla data di entrata in vigore della legge 17 febbraio 1992, n. 179, ovvero per la cessione del diritto di superficie, possono essere rimossi, dopo che siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, con convenzione in forma pubblica stipulata a richiesta del singolo proprietario e soggetta a trascrizione per un corrispettivo proporzionale alla corrispondente quota millesimale, determinato, anche per le unità in diritto di superficie, in misura pari ad una percentuale del corrispettivo risultante dall’applicazione del comma 48 del presente articolo. La percentuale di cui al presente comma è stabilita, anche con l’applicazione di eventuali riduzioni in relazione alla durata residua del vincolo, con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell’economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza unificata ai sensi dell’articolo 3 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.”

I fautori della novella legislativa del 2018 (oggi sottoposta al vaglio di costituzionalità) sostengono che, antecedentemente alla pubblicazione della sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione n. 18135/2015, sussisteva un caos normativo che avrebbe indotto in errore le parti contrattuali (venditori e acquirenti) entrambe convinte di poter liberamente negoziare secondo le regole del mercato. Ciò è assolutamente falso.

Infatti, la Suprema Corte che, all’interno della sentenza n. 18135/2015, nella parte in cui viene effettuata la ricostruzione ermeneutica della normativa attinente alle convenzioni ex art. 35 della L. 865/1971, fa espresso riferimento alla circostanza che la giurisprudenza di legittimità non ha mai messo in dubbio il principio secondo cui “il vincolo alla determinazione del prezzo discende, in tutti i casi, direttamente dalla legge” ed ha aggiunto che tale principio: “appare altresì conforme, sotto il profilo teleologico, ad una politica volta a garantire il diritto alla casa, facilitando l’acquisizione di alloggi a prezzi contenuti (grazie al concorso del contenuto pubblico) ai ceti meno abbienti e non certo quella di consentire successive operazioni speculative di rivendita a prezzo di mercato”.

In effetti, riguardo alla tipologia in esame, esisteva una giurisprudenza per niente ondivaga secondo cui “Qualora il proprietario di un immobile costruito da una cooperativa edilizia in regime di edilizia residenziale convenzionata, sulla base di una convenzione con il comune, abbia stipulato un contratto per la cessione dell’immobile ad un prezzo superiore a quello massimo indicato nella convenzione, il predetto prezzo può essere adeguato, ex art. 1339 c.c., a quello stabilito nella convenzione stessa” ed ancora:, “che siffatta interpretazione della clausola contrattuale è in linea con le finalità sociali della normativa [...] diretta ad agevolare a livello collettivo, l’accesso alla proprietà della casa d’abitazione, finalità che sarebbe vanificata ove fosse consentito agli acquirenti successivi dell’immobile di venderlo a prezzi superiori, ponendo così in essere inammissibili speculazioni” (Cass. Civile Sez. II, sent. n. 3018/2010, Cass. Civile Sez. II, sent. n11032/1994).

Inoltre, la Suprema Corte, nella famosissima sentenza n. 13006 del 2 ottobre 2000, aveva chiarito che la convenzione disciplinata dall’art. 35 della legge n. 865 del 1971 produce effetti che si ripercuotono anche nei diritti dei terzi per la valenza erga omnes che viene riconosciuta alle convenzioni urbanistiche.

Successivamente, le Sezioni Unite, nella sentenza n. 506 del 12.01.2011, avevano pure statuito che non può essere consentito – a chi ha beneficiato del vantaggio dell’acquisizione dell’immobile per un corrispettivo agevolato – di rivendere il bene al prezzo di mercato, altrimenti si determinerebbe una palese ingiustizia. In altre parole, hanno in ribadito il concetto (espresso nel motto della nostra associazione) secondo cui la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica non può terminare al momento della prima assegnazione degli alloggi.

Alla luce di tutto ciò, appare chiaro che la sentenza n. 18135/2015 della Sezioni Unite della Suprema Corte non ha introdotta nessuna novità nel campo dell’edilizia convenzionata di cui all’art. 35 della L. 865/1971. Bensì ha espanso il campo di applicazione del prezzo massimo di cessione anche alla (ri)vendita alloggi edificati in regime di edilizia convenzionata di cui alla Legge 10/1977 (cd. “Bucalossi”).

I principi in espressi nella sentenza 18135/2015, sono stati successivamente ribaditi nelle sentenze n. 21 del 03/01/2017, n. 28949 del 04/12/2017 e n. 13345/2018 nelle quali è stato confermato che: “chi ha comprato un alloggio di edilizia residenziale convenzionata a prezzo di mercato ha diritto alla restituzione della differenza tra quanto versato e quanto invece dovuto in base ai vincoli stabiliti dalla convenzione originaria di assegnazione del diritto di superficie”.

Sebbene, in una certa ottica, la sentenza 18135/2015 (almeno per quanto attiene alle convenzioni ex art. 35 della L. 865/1971) potrebbe essere considerata addirittura superflua si osserva che, nella sua chiarezza ed autorevolezza, è stata utile a mettere definitivamente fine alla scorribanda a danno della funzione sociale di questa tipologia di alloggi, che nella Capitale durava almeno da 10-15 anni.

Sul piano sociologico, non v’e dubbio che il fenomeno relativo al mancato rispetto del prezzo massimo di cessione, era maggiormente diffuso nella Capitale dove centinaia di romani hanno (ri)venduto o affittato alloggi, ottenuti pochi anni prima tramite assegnazione da cooperative edilizie, senza rispettare il prezzo massimo di cessione e di locazione. Non v’è dubbio che  gran parte di questa gente è stata tratta in errore da notai, dirigenti comunali e agenzie immobiliari  che hanno fornito indicazioni assolutamente errate.

In effetti, fino a pochi giorni prima della sentenza n. 18135/2015, nonostante la pendenza del rinvio alle Sezioni Unite, gli Uffici capitolini continuavano a fornire creativi “chiarimenti” (per noi “patenti speculative”) ai primi assegnatari che quindi, commercializzano detti cespiti a prezzo libero di mercato e si appropriavano di un enorme surplus sul prezzo di vendita, rispetto al valore previsto dalle relative Convenzioni edificatorie.

Per inciso, questo privilegio (che equivaleva ad una vincita al superenalotto), è stato concesso senza neppure richiedere l’obolo previsto dal comma 49-bis dell’art. 31 della Legge 448/1998 introdotto dalla Legge 106/2011 (c.d. Decreto sviluppo 2011) perché tale normativa – nel Comune di Roma – è rimasta inattuata fino al 2016.

Ma ciò è poca cosa rispetto all’impatto sociale e alla turbativa di mercato che è stato provocato nella nostra città dove, abitazioni situate all’ estrema periferia, si ripete edificate su terreni espropriati per pubblica utilità, sono stati posti in vendita al prezzo poco popolare di 360.000 euro (ed oltre!) laddove i primi assegnatari – pochissimi anni prima – non hanno pagato neppure la metà di quanto pretendevano in fase di rivendita.

La ns. associazione, cocciutamente, si è sempre opposta a decisioni che contrastavano con quanto disposto dagli art. 3, 42 e 47 della Costituzione Italiana, con quanto statuito dalla Suprema Corte di Cassazione nelle sentenze nn. 506/2011, 3018/2010 e 11032/1994, con quanto deliberato dal C.E.R., con quanto contrastava la migliore dottrina (Studio 521-2011/C del Centro Studi del Consiglio Nazionale del Notariato) e che non si trovavano in linea con il comma 49-bis dell’art. 31della Legge 448/1998. Abbiamo sempre denunciato l’errore (?) giuridico in cui versava chi dilatava la portata permissiva dell’art. 20 della Legge 179/1992 e chi riteneva che, il Legislatore, con l’abrogazione dei commi dal 15° al 19° della Legge 865/1971, effettuata con l’art. 23 della L.179/1992, avesse voluto liberalizzare il mercato dell’edilizia economica e popolare.

Le sentenze della Suprema Corte hanno scatenato le ire dei venditori che, costituitosi in “Comitato venditori 18135”, con incredibile capacità mediatica, hanno dipinto gli acquirenti con i colori degli sciacalli e dei profittatori perché, pur avendo la possibilità di “affrancare” il prezzo massimo, si rivolgevano alla giustizia al fine di ottenere la ripetizione dell’indebito.

Costoro, sul piano giuridico hanno perfino avanzato l’ipotesi di un abuso di diritto che però è stata rigettata dalla sentenza della S. Corte che nella sentenza n. 28949/2017 dove si legge che: “non è ravvisabile alcun abuso del diritto nel fatto che gli acquirenti abbiano agito nei confronti dei venditori per ripetere l’eccedenza di prezzo, e, come si assume dal ricorrente, separatamente pagato il corrispettivo per rimuovere il vincolo e rivendere l’immobile a prezzo di mercato, in quanto tale condotta ha perseguito un risultato lecito attraverso mezzi legittimi, e non ha causato alcuna sproporzione o ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale”. D’altronde, la Corte Costituzionale ha evidenziato che “l’art. 2033 cod. civ. per sé stesso non è censurabile in riferimento ad alcun parametro costituzionale, essendo improntato al principio di giustizia che vieta l’arricchimento senza causa a detrimento altrui”. (v. Sentenza n. 166/1996)

Il Sen. Ugo Grassi[1], autore e firmatario dell’emendamento che ha aggiunto il comma 49 quater all’art. 31 della l. 23 dicembre 1998, n. 448, ha pacificamente dichiarato che la novella legislativa del 2018 si è fatto carico di risolvere la questione (a suo dire) drammatica dei venditori.

Secondo la sua prospettiva, la novella legislativa del 2018 si proponeva lo scopo di “traghettare l’immobile verso una condizione giuridica su cui l’acquirente, al momento dell’acquisto, aveva fatto affidamento e che aveva fatto ritenere congruo il prezzo di acquisto”. Paradossalmente, secondo la sua autorevole opinione: “il costo dell’affrancazione, essendo sopravvenuto, dovrebbe essere ripartito in parti uguali tra il venditore e l’acquirente”. In altre parole, l’acquirente nonostante si ritrova sulle spalle un mutuo che vale almeno il doppio del valore legale dell’abitazione, dovrebbe contribuire al costo del traghetto.

Posto che il controllo di costituzionalità «esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del parlamento», sul piano formale, occorre innanzitutto sottolineare che il suddetto comma 49 quater dell’art. 31 della l. 448/1998[2], non ha alcuna attinenza con la finanza pubblica e pertanto pare estranea alla materia trattata dalla Legge 136/2018 (cd. “Finanziaria 2019”).

Sul piano sostanziale, in una ottica sistemica spesso richiamata da questa Ecc.ma Corte, sarebbe importante andare al di là della diatriba tra venditori ed acquirenti e tenere conto dell’interesse pubblico che ha giustificato l’esproprio dei suoli edificatori e la concessione dei numerosi benefit (finanziamenti pubblici, sconto sugli oneri di urbanizzazione, esenzione dal pagamento del contributo relativo al “Costo di costruzione”).

In effetti, l’edilizia residenziale pubblica (e nella fattispecie l’edilizia convenzionata di cui all’art. 35 della L. 865/1971) contribuisce ad assolvere alla funzione di “sopperire al fabbisogno abitativo di categorie sociali di limitate capacità economiche, o ritenute per altre ragioni meritevoli di tutela” (v. Sentenza C. Cost. n. 155/1988).

Il Giudice rimettente ha giustamente sottolineato che l’edilizia residenziale pubblica mira a canalizzare l’intervento pubblico – diretto o indiretto, ossia realizzato attraverso agevolazioni economiche – verso il soddisfacimento della richiesta abitativa delle categorie sociali meno abbienti e esposte al rischio di carenza abitativa. Vengono così realizzate prestazioni che, secondo l’opinione di un’autorevole dottrina, possono ascriversi alla categoria concettuale del servizio pubblico, data la loro destinazione al soddisfacimento di un bisogno collettivo o generale della comunità. Ha anche rimarcato che molti Stati Membri delle Nazioni Unite hanno affermato che l’abitazione è una componente essenziale dei diritti fondamentali riconosciuti ad ogni individuo per partecipare pienamente alla società. Senza di esso gli individui non sarebbero in grado di godere di molti dei diritti umani riconosciuti dalla comunità internazionale. Ha citato l’art. 47 della Costituzione italiana recita: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del paese» ed ha scritto che: “Se la proprietà dell’abitazione serve a soddisfare un bisogno essenziale dell’uomo, dunque, il titolare del diritto non potrà trarne un profitto speculativo, a maggior ragione se trattasi di “edilizia agevolata” ovvero fruente, all’origine, di un finanziamento pubblico ed hanno realizzato su suoli espropriati, come nel caso di specie.”

A nostro modo di vedere, tali affermazioni meriterebbero un pubblico plauso perché è del tutto irragionevole che la funzione sociale di un alloggio costruito su aree espropriate per pubblica utilità (e che abbia usufruito di numerosi benefit pubblici) possa esaurirsi al momento della prima assegnazione. Archiviare questi sani principi di convivenza civile, di giustizia e solidarietà sociale, dopo solo cinque anni dalla prima assegnazione, senza prevedere la restituzione (nemmeno parziale) dei numerosi benefit ricevuti dallo Stato (nelle sue varie articolazioni) appare del tutto irragionevole.

L’architettura giuridica della novella legislativa del 2018 poggia sul (falso) presupposto che nella situazione di specie possa essere ridotta ad una questione contrattuale tra venditori ed acquirenti. In realtà, appare ovvio che il principale protagonista dovrebbe essere l’interesse pubblico sul cui altare sono stati sacrificati i diritti della proprietà dei suoli espropriati e i principi ispiratori del nostro sistema giuridico.

Il legislatore del 2018, si è lasciato incantare dall’ipotesi della cd. “speculazione inversa” in base al quale l’acquirente sarebbe stato messo nella condizione (privilegiata) di richiedere la ripetizione dell’indebito e contemporaneamente realizzare una enorme plusvalenza dalla vendita dell’alloggio.

Per eliminare questa (possibile) stortura, è stata introdotta una inammissibile deroga al generale principio della ripetizione di indebito che come suo fondamento ha l’inesistenza della obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto o perché è venuto meno successivamente, ad esempio a seguito di annullamento.

Posto che la “speculazione inversa”, sul piano individuale presuppone in intento speculativo e rappresenta una pura ipotesi (che non si realizza fintanto che l’alloggio viene utilizzato come dimora della propria famiglia), poteva formularsi una soluzione equa mediante la cancellazione tout court della possibilità di “affrancare” il prezzo massimo di cessione di questa tipologia di alloggi.

D’altronde, la finalità di agevolare la commercializzazione degli immobili ricadenti nei piani di zona[3], viene già assicurata della cd. “Trasformazione” del diritto di superficie in proprietà piena” di cui al comma 48 dell’art. 31 della L. 448/1998 che porta con sé la decadenza dei vincoli convenzionali e il vantaggio che l’alloggio rimane nel recinto dell’edilizia residenziale pubblica per almeno venti anni dalla stipula della convenzione con cui i Comuni hanno concesso i suoli ai soggetti attuatori del Piano di Zona (imprese di costruzione e cooperative edilizie).

In alternativa, sarebbe stato opportuno prevedere un aumento significativo dell’importo (oggi irrisorio) richiesto per l’affrancazione del prezzo massimo di cessione degli alloggi. In questo modo sarebbe stato annullato (o quantomeno si limitato) il potenziale vantaggio denunciato dal Comitato dei venditori. Tale soluzione avrebbe avuto anche il pregio di far introitare maggiori somme nella casse delle tesorerie comunali. Invece il Decreto Ministeriale di cui al c. 49-Bis della L. 448/1998 va nella direzione esattamente opposta.

Dal nostro punto di vista, in una ottica conforme ai principi di giustizia sostanziale, sarebbe stato meglio che le lagnanze dei venditori, senza compromissione dei diritti degli acquirenti, fosse stato indirizzato nel campo del risarcimento del danno verso coloro che li hanno indotti in errore (ovvero notai e dirigenti dell’amministrazione capitolina).

Nell’interesse del sistema di protezione individuato dall’edilizia residenziale pubblica, ai sensi dell’art. 4 ter delle “Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale”, si chiede di essere formalmente ammessi a partecipare al giudizio di costituzionalità (di cui trattasi) e di essere ascoltati in occasione dell’udienza ex art. 14-bis.

Con osservanza

Presidente Associazione “Area 167”

(Sig. Giuseppe Di Piero)

 

[1] v. Rass, Diritto Civile n. 1/2020

[2] 49 quater: “In pendenza della rimozione dei vincoli di cui ai commi 49 bis e 49 ter, il contratto di trasferimento dell’immobile non produce effetti limitatamente alla differenza tra il prezzo convenuto e il prezzo vincolato. L’eventuale pretesa di rimborso della predetta differenza, a qualunque titolo richiesta, si estingue con la rimozione dei vincoli

[3] Finalità alla base della introduzione nell’ordinamento giuridico del c. 49 bis dell’art. 31 della L. 448/1998 da parte della L. 106/2011 (cd. “Decreto sviluppo 2011”)

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